Le pupe dei gangster vanno a letto presto

– Connell, vacci tu.

È cominciata così, con tre parole sparate secche nella stanza che puzza di fumo, caffè freddo e altre esalazioni corporee. Non facciamo tanto galateo, al settimo dipartimento di polizia di questa cazzo di città. Mi hanno detto dove e il nome della tizia, Margot. Un bel nome da sgualdrina ossigenata, concludo, mentre prendo il pacchetto di Pall Mall e filo lungo la diciannovesima con la sirena che ulula come un coyote. Questa Margot è l’ultima pupa di Jack “Lovely” Ritter, il capo di una benemerita associazione che spande merda di ogni tipo sui docks e nelle zone limitrofe. Non le zone migliori di questa cazzo di città, dico, ma la sera ci vedi circolare un po’ di tutto, dai ragazzini puliti in cerca di sballo facile agli uomini in occhiali scuri che cercano qualcosa che tiri su quello che resta immutabilmente giù. L’umore, che avete capito?

Ehi, ehi, cazzi vostri, dico, io non giudico nessuno, non me ne frega niente di cosa vi sparate nella testa, se non è piombo, sia chiaro. Ma se Lovely decide poi di mettere la sua bella faccia di irlandese del cazzo fuori dai docks e di prendersi la fetta di un occhiamandorla, e se per farsi spazio fa ammazzare qualche sorcio che spaccia roba tranquillo nella sua zona, e se poi qualche muso giallo si incazza…beh, allora questo non va bene, se permettete. Perché poi ci ritroviamo con la gente sgozzata per strada come se piovesse, perchè i mongoli quando si incazzano, si incazzano di brutto. Già. E se poi nel macello ci capita anche uno dei nostri informatori, che l’altra notte si è ritrovato con un bel palmo di metallo nei polmoni, e se quel metallo ha sul manico le iniziali di Ritter, beh, se permettete sono anche cazzi nostri.

E allora siamo andati a beccarlo, il bastardo. Sta nel suo bar, tranquillo come un papa, l’elegantone, in un completo italiano che costa almeno la metà di quello che guadagno in un anno, mazzette escluse. E prende un tè al latte. Nemmeno gangster come si deve ci sono in giro, Lovely sembra un pappone improfumato e beve tè. Scommetto la cintura dei pantaloni che si fa fare anche la manicure da una delle cagne che gli girano attorno sbavando e torcendosi tutte. Oltre al resto.

Comunque il tipo, anche sotto torchio, non suda e non si smuove: pare che abbia passato la notte appiccicato alla puttanella ossigenata. Il portiere li ha visti entrare prima di cena e giura che non sono usciti fino alla mattina: noi gli crediamo, certo. Come no.

Ora mi tocca andare a sentire quello che ha da dire la sgualdrina. Che cazzo volete che dica, le conoscete, no? le pupe che si scelgono hanno una bella carrozzeria, il cervello di un’oca che ha avuto la meningite da piccola, e funzionano come i flipper, a botte e a soldi. Ma se il capo dice ‘Connell, vacci tu’, io ci vado e come, a vedere quante botte ci vogliono per vedere le lucine che si accendono.

È al nono piano, m’infilo nell’ascensore dicendo al portiere che sono un amico di Margot, e chiudo la grata su quel brutto grugno che sicuramente è al soldo di Ritter mentre ancora mi chiede cosa desidera da miss Tchernova, signore. Il signore desidera mollarle sberle finché non la smette di coprire quella carogna che si porta a letto, per la verità, ma tralascio i dettagli.

Giro le spalle alla porta, e questo specchio del cazzo mi vomita addosso un miscuglio di peli troppo lunghi, capelli troppo dritti e faccia spiegazzata… ‘fanculo, mica vado a fare un ballo con miss Tchernova. Comunque mi aggiusto la cravatta per fare più scena.

Suono a lungo, due-tre volte.

Sulla porta non c’è il numero dell’interno, ma una targhetta in ottone “M. T.” tirata a lucido: faccio il conto di quanto passeranno al portiere per le pulizie, ogni genere di pulizie, alibi inclusi. Non deve passarsela male, il negro. Farò i conti con lui al ritorno. Ora se questa troia non apre…

Ha aperto. Beh, non lei, questa è una lattante. Però ha aperto lei e chiedo “Margot” e lei risponde sì.

Sto per chiederle dov’è la pupa ossigenata, ma mi fermo: non so bene cosa fare, il mio genere di interrogatorio è sberla-domanda-sberla, fino ad ottenere la risposta esatta, cantata con la giusta tonalità. Ma questa se la tocco va in briciole, cazzo. Porta una maglietta grigia lunga fino alle ginocchia ed è scalza, spettinata come se si fosse alzata ora per aprire. Ed è bianca, bianca di pelle, così bianca che mi sento di colpo lurido da fare schifo. Ma la cosa davvero fantastica sono i capelli:  ragazzi, sembrano i fili di rame nascosti nei cavi elettrici, ma a centinaia, a migliaia. Brillano lisci, bruciano, fanno luce nella stanza. Questa troia è bellissima, scusate la poesia.

Polizia, devo farti qualche domanda. E le mostro la pistola alla cintura, le venisse voglia di fare qualche scherzo idiota.

Ma lei si scosta e mi lascia entrare senza problemi. Non strilla, non blatera, mi fa entrare come se fossi un lord inglese. Stava leggendo, c’è un plaid verde e blu sul divano e un libro faccia in giù. Mi offre un caffè, per fortuna non beve tè come il pappone, riempie una tazza anche per lei e si siede di fronte a me, fissandomi. Che cazzo crede di fare, conversazione sul tempo? La interrogo su ieri notte, su Lovely, e lei ripete la stessa pappa: sono rimasti in casa, e lui è andato via solo al mattino. Tiene la tazza con due mani, come fanno i bambini, e mi osserva da sopra il bordo, con gli occhi grigi come la maglietta. Più grigi, direi. E grandi, grandi…chissà com’è farsi una così, mi chiedo. Meglio non saperlo, mi rispondo. Fine della conversazione.

Si alza, torna con i documenti, si siede di nuovo di fronte: scopro che il vero nome è Margareta, mi spiega che significa perla e io come un idiota ci casco e le dico certo, così bianca. Mi riprendo, ricomincio a fare domande su Ritter, ma è fatica sprecata, pare davvero che lei non sappia niente di niente. Vuoto sui traffici ai docks, zero sui cinesi imbufaliti, mai visto il machete che ha bucato Smythe ieri notte. Anzi, le sale qualche lacrimuccia agli occhi man mano che le faccio il ritratto preciso del suo Lovely. E quando, nonostante tutto, ripete che davvero sono andati a letto presto, mi viene da crederle. Che cazzo, è una bambina.

Insomma, quasi.

Dovrei consolarla.

Sei un imbecille.

Potrei.

Non se ne parla.

Mi sento un elefante imbizzarrito su questo divano da bambola, mi agito, faccio cadere il libro. Ci pieghiamo insieme per raccoglierlo e vedo che è scritto in quel cirillico del cazzo che l’anno scorso mi ha fatto andar fuori di testa durante le indagini sul racket della prostituzione minorile, decine di bambine bionde che hanno sbagliato tipo di leccalecca, non so se mi spiego. Città di merda.

Chissà se questa fa parte della stessa scuola: sto pensando di chiederglielo, e invece mi esce fuori una roba tipo ti manca il tuo paese, immagino. Ho quel cazzo di libro in mano e lei spalanca gli occhi che brillano ancora per le lacrime come se avessi detto qualcosa di speciale per cui dovrebbero darmi subito un premio importante. Bingo, Connell. È ancora in ginocchio, proprio davanti a me, e mi sto facendo dei film che non vi dico.

Mi sento così sola, qui. La voce ha tremato come se mi stesse rivelando un segreto, e a me si secca la lingua in bocca in un secondo. Bevo un sorso di caffè che ormai è diventato freddo, pensando con affetto alla bottiglia di Wild Turkey nel cassetto della macchina. La situazione è durissima, se mi capite. E mentre sono lì a decidere se saltarle addosso o portarla al dipartimento per torchiarla come si deve, lei mi toglie la tazza dalle mani, si siede accanto a me e accavalla le gambe: intorno alla caviglia un sottile bracciale d’oro rosso come i suoi capelli, potrei guardarlo tremare per ore. Adesso posso vederla da vicino. Molto da vicino. Ha un odore pazzesco.

Vado a letto presto, detective, dice. Molto presto. A letto presto…cazzo. E io non mi lavo da una vita.

Sembra assurdo, ma ricordo perfettamente le tettine di marmo sotto la maglietta, ricordo lei di nuovo in ginocchio, le mie mani affondate nei fili di rame e le sue che armeggiavano con la cintura e poi…soprattutto ricordo che non ci credevo, cazzo, non credevo stesse succedendo proprio a me. Ricordo che lei rideva e che ho ansimato. Beh, tutto qui.

Ora sono steso qui, col lenzuolo che copre la decenza, e sto bene, tutto sommato. Me ne infischio di quel bastardo di Lovely, del povero Smythe e dei colleghi del settimo, me ne infischio di tutto, anche della sega che mi hanno puntato allo sterno. ‘Fanculo tutti.

Il coroner sta dicendo a qualcuno che, anche se mi hanno ripescato nelle lerce acque del porto, la causa del decesso è una pallottola che mi ha spaccato il cuore. Una pallottola tirata dal basso verso l’alto. Con la mia stessa pistola.

Ma la verità, ragazzi, è che ora lo so: le pupe dei gangster vanno davvero a letto presto.

E, credetemi… non sempre è un bene.

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Categorie: d'Inediti

Autore:diLetti e Riletti

Blog di libri, letture, divagazioni. www.dilettieriletti.wordpress.com

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