
E mi ricordo ancora.
Mi ricordo che la strada era sterrata e quando pioveva si formavano pozzanghere bordate di fango argilloso, denso.
Mi ricordo che dalle finestre del salone (la casa non era ancora finita, ma era già salone), dalle finestre, dunque, si vedevano muretti a secco e campi. Ricordo i mandorli fioriti come nuvole e in mezzo il tramonto di un pesco. Il contadino della masseria che sudava dietro al cavallo che trascinava l’aratro di legno. Le corse in bici e i campi gialli di stoppie, le fionde e le lucertole torturate per vedere se cresceva una coda nuova. I cani lasciati liberi che a noi facevano paura: uno, in particolare, nero e brutto. Non ha mai morso nessuno, che io ricordi. E ricordo.
Ricordo lui, e la canotta giallastra che sbucava da una camicia incolore e consunta, quando c’era. La pelle rosso rame dal sole preso d’estate come d’inverno, nelle sue camminate senza meta e senza fine. Ricordo i capelli fini, radi, dritti come in fuga da quella testa strana. La bocca sempre aperta, ma i suoni confusi.
Si chiamava Carmelo, ma per tutti era lu Melu. Con due M all’inizio, lummelu. A bassa voce, lo chiamavamo lu Melu scemu. Sottovoce, perché scemo era già una parola che mia madre avrebbe punito con uno schiaffo. Lu Melu, lu scemu, lu pacciu. Era come il cane nero: ci faceva una gran paura, eppure non ci aveva mai torto un capello. Ricordo un saluto, ogni tanto, lettere articolate male, sputacchiate da quella bocca demente, da quei denti storti. Lu Melu -pacciu, scemu- camminava senza fermarsi mai, chilometri macinati verso il nulla, dalla Cinquecento di papà lo vedevamo lungo la strada che portava al mare, le falde della camicia che gli svolazzavano dietro, ali di un uccello impazzito chissà quando, chissà in quale gabbia. A volte, quando il sole martellava, solo una canottiera ciondolante sulla pelle più rossa e più scura, solo un fazzoletto annodato agli angoli sui capelli piume.
Era sposato, lu Melu, (ma davvero si sposano i pazzi, gli scemi?) con una donna piccola, dura e consumata. E quando già eravamo più grandi e forse scemu gliel’avevamo gridato dietro qualche volta (quando le mamme non sentivano), ci gelò l’apparire del figlio, la stessa testa gettata all’indietro, ma di più, con i capelli ferrigni della madre. La stessa bocca aperta e piena di saliva, lo sguardo più storto e opaco. Forse aveva la nostra età, ma era più alto e robusto di noi, e di tutto quel corpo scoordinato, delle gambe flesse, delle mani pendule non sapeva cosa farsene. Non giocava, non andava in bicicletta, non tirava con la fionda a uccelli e lucertole.
Sparì presto, o forse io smisi di giocare in strada: avevo una vita complicata da medici e ospedali, la bicicletta fece la ruggine, le corse e i muretti a secco erano vietati. E la sua, di vita, doveva esserlo molto di più, lo capivamo persino noi.
Ricordo ancora lu Melu, lu scemu. Lu pacciu. In questi giorni, come un senso di colpa, lo ricordo di più.
E tu cosa ne pensi?