
A G. (o a S.)
Ferma al passaggio a livello, Myriam guarda la macchina.
Ferma anche lei.
Ferma l’aria di agosto, la campagna fin dove vede, ferme le foglie, le pietre, la polvere. Intorno, nessuno. Non un cane, una lucertola: solo cicale che urlano nascoste, una macchina guasta e lei.
Che fa persino fatica a respirare, dopo l’arrabbiatura che si è presa quando il cliente le ha telefonato per dirle che no, non sarebbe andato a vedere la casa in vendita, quella sera, perché…il perché è rimasto sotto l’onda verdastra di rabbia che per un po’ (quanto?) di tempo ha cancellato ogni cosa. La macchina ha iniziato a girare a vuoto, il motore imballato, la testa imballata di pensieri cattivi, cattivi che facevano a pugni per uscire dagli occhi strizzati. E poi, poi niente, spenta la macchina, spenta la rabbia, è uscita barcollando, senza quasi avere la forza di spingere lo sportello.
È colpa mia, lo so.
Quando tenta di pensare a come si sente -e di solito evita, perché richiederebbe un’energia che subito dopo le manca e a distanza non riesce – come si sente, intendiamoci, quando la rabbia viene fuori e poi succedono quei fatti là, non pensa a colate roventi, fuoco, fiamme. No. A Myriam sembra piuttosto un vomito melmoso, gettiti larghi e silenziosi, una sostanza che erutta da stagni profondi e freddi, da sabbie mobili affamate. E dopo -proprio come se si fosse liberata di cibo maldigerito- si sente svuotata, ma non meglio o soddisfatta. Solo meno pesante.
Non riesce a ricordare la prima volta che le è successo. Ricorda però Enrica, la sua compagna di banco, che l’aveva presa in giro perché aveva fatto cadere dell’acqua sul quaderno degli esercizi. Il quaderno era finito tra le mani della maestra, che l’aveva rimproverata, sventolando i fogli ondulati e macchiati davanti alla classe. Il gelo si era addensato nello stomaco. La corsa in bagno, temendo di sentirsi male, tanto forte era l’impressione che il fango denso sarebbe salito salmastro in bocca, fino a soffocarla. Invece poi era passato, e anche la maestra, vedendola pallida e tremante, le aveva fatto una carezza.
Myriam era andata quasi ogni giorno a trovare Enrica, dopo la brutta frattura alla gamba che si era procurata all’uscita di scuola (È colpa mia, lo so); l’aveva consolata come si fa tra amiche. Enrica aveva poi dovuto ripetere l’anno, ma era nulla rispetto al fatto che avrebbe zoppicato per il resto della vita.
Seduta sul cofano della macchina calda, nell’aria calda e muta, incrocia le braccia. Potrebbe prendere il cellulare e chiamare qualcuno. Potrebbe. Ma non ne ha voglia. Potrebbe chiamare il soccorso stradale, sarebbe semplice e non farebbero troppe domande. O chiamare il-suo-ex (potrebbe chiamarlo per nome, almeno nei pensieri, ma non ne ha voglia). Respira con la bocca aperta, ingoiando aria calda e asciutta, immaginando il fango che si secca dentro, sgretolandosi, diventando polvere. Quando il-suo-ex (all’epoca non era ancora il-suo-ex e aveva un nome tutto suo) si era interessato a una ragazza molto più giovane si era sentita una nullità. E quella voce che le ricordava troppo sua madre Non sei stata capace di tenerti il marito, non sei capace di fare niente di buono. È colpa mia, lo so. Poveretta, sua madre, l’ictus l’aveva ridotta male -era successo proprio in quel periodo, già – e ora non riusciva a pronunciare più di qualche mugugno. Sbavando, perdipiù.
Con il-suo-ex erano nuovamente in rapporti quasi amichevoli: dopo l’incidente della doccia, lo doveva ammettere, aveva tentato di ricucire lo strappo. Anche la ragazza si era fatta ricucire, e molto: il vetro esplodendo le aveva tagliuzzato viso e corpo in maniera quasi metodica, come guidato da una mano perversa. Il-suo-ex era persino stato indagato perché pensavano avesse manomesso la cabina. Ma se l’era cavata. Già, se l’era cavata.
Myriam sospira, si accovaccia sui talloni, e raccogliendo un rametto prende a tracciare segni nella terra secca. Le torna in mente quel geometra che sul cantiere la trattava con sufficienza, e una volta le aveva sibilato che le femmine nei cantieri proprio non si capiva che cosa… aveva visto il fango, il geometra? l’aveva guardata interdetto per qualche secondo, la boccuccia aperta, senza finire la frase. In ogni caso, il giorno dopo, un sacco di cemento mal sistemato su un carrello gli era precipitato sulla schiena ed era sparito dalla circolazione. Gli operai avevano iniziato a trattarla con più rispetto, da allora.
Era chiaro che non poteva essere una coincidenza. Lo so.
Il fango sommerge tutto sempre più spesso, e ora è quasi certa di riuscire a chiamarlo. Non ha neanche bisogno della rabbia, o almeno, non del tutto. È quasi certa, ma deve provare, provare per bene.
Il rametto, girando nella polvere, incontra un mucchietto di terra, un formicaio brulicante di puntini neri e rossi. I puntini si avventano sul rametto, una formica rossa sale con coraggio, scavalca l’unghia, raggiunge la pelle tenera del polpastrello e vi affonda le minuscole tenaglie. Il freddo nello stomaco si addensa, la formica si ferma, trema un istante, cade: Myriam non la vede nemmeno. Dopo un alcuni minuti si alza, spazzola i pantaloni.
Intorno a lei, decine di formiche morte, un passero con il collo spezzato gira gli occhi opachi verso il cielo incolore.
Myriam passa sotto la sbarra del passaggio a livello, e si ferma al centro dei binari, rilassata, gli occhi semichiusi: accoglie il getto freddo, si fa recipiente, si lascia riempire quasi con piacere.
Aspetta.
Il fischio del regionale taglia l’aria.
E tu cosa ne pensi?