
Non scrivete passione.
Vi prego, non lo fate. Perché non era passione.
Non era passione quando mi controllava il telefono, fingendo di giocarci; non era passione quando arrivava d’improvviso in negozio dicendo che voleva vedermi, mentre i suoi occhi frugavano i miei in fuga senza motivo, già colpevoli.
Non era passione quando mi ha estorto con mille moine le password, le chiavi di casa, quando ha voluto leggere i miei vecchi diari. Quando li ha strappati.
All’inizio a me sembrava passione, è vero. Sorrideva mentre diceva che avrebbe avuto cura di me, sorrideva quando per strada mi stringeva il polso, camminandomi accanto. E io mi sentivo protetta, sicura: la sua presenza continua faceva di me un oggetto prezioso, tenuto al riparo dal mondo.
Ma non dite passione.
Per favore, non scrivetelo.
Mesi e giorni e mesi si sono accumulati in fretta e io non capivo.
Nascevano dal nulla strane discussioni sul mio comportamento, il mio modo di vestire e parlare, sulla gente che incontravo: si acquietavano in fretta, perché mi piegavo velocemente, incantata da quella costante attenzione possessiva a me, ad ogni aspetto della mia vita.
Mi lasciavo amare in quel modo totale, cullata da una nenia vaga e bassa, e solo ogni tanto mi pareva di cogliere dissonanze, scricchiolii di un ingranaggio che stritoli sabbia e vetri. E’ stato allora che qualcuno me ne ha parlato.
Un’amica.
Non lo è stata più da subito. L’ho lasciata parlare, certo, era un’amica; e poi le ho vomitato addosso il fiele che mi portavo dentro da mesi e giorni e mesi. Ora, se potessi, saprei dire da dove usciva quel veleno.
Invidiosa, gelosa, maligna, cattiva, cattiva… per questo mi diceva quelle cose assurde. Lui mi amava, mi amava! e mi metteva in guardia dalle cattive compagnie. E aveva ragione, aveva ragione lui: la mia amica era una cattiva compagnia.
Dopo, sono rimasta ansante e vuota a guardare la porta chiusa. Mi sono stretta tra le braccia, dondolando sulla sedia. Anche in quel momento qualcosa ha vacillato, ma l’ho cementato con la rabbia. L’ingranaggio masticava a pieni denti, lo stridio diventava insopportabile.
Senza pensare, ho acceso una sigaretta. Ma l’ho spenta subito e subito sono scappata in bagno a lavarmi i denti: gli danno fastidio le donne che fumano. Una volta mi ha fatto saltare la sigaretta di bocca con uno schiaffo, ma gli ho chiesto scusa, scusa, era colpa mia se l’avevo fatto arrabbiare così. Colpa mia.
Un passo dopo l’altro, sono rimasta sola.
Non sola, in realtà. Lui era sempre con me.
Sempre.
Ma non per passione, no.
Si era impossessato pian piano della mia vita, e io gliel’avevo regalata senza badarci. O se ci pensavo –e a volte mi accadeva- mi sgomentavo del vuoto che mi aveva aperto attorno: allora lo chiamavo perché avevo bisogno di lui. E lui rideva di me, della mia debolezza.
Giorni e mesi e ancora giorni sono passati, e i dubbi si sono infiltrati goccia a goccia nel soffitto della mia anima. Piccole infiltrazioni umide, che lasciavano macchie grigie dai contorni slabbrati. Non ho detto nulla a nessuno, e come avrei potuto: lui era il mio oggi e il mio domani, non riuscivo ad immaginare nulla al di fuori del raggio del suo sguardo.
Non vedevo più con i miei occhi, non parlavo che con le sue parole.
La testa mi rimbombava di lui.
I polmoni si gonfiavano del suo respiro.
Io non ero più nulla.
Poi un giorno, un giorno. Quel giorno -che è un oggi infinito per me- ero per strada e quel ragazzo ha iniziato a seguirmi. Non mi ha detto nulla, fischiettava, forse mi guardava le gambe. Io ho affrettato il passo, avevo… non l’ho riconosciuta subito, avevo paura. Paura nuda, paura cruda. Viscida, disgustosa, lombrico che scendeva dai capelli, strisciava sulla nuca, si infilava lungo la schiena lasciando bave di brividi.
Non di quello che lo sconosciuto poteva farmi. Ma di lui. Del suo giudizio macigno, delle sue parole filo spinato.
Mi avrebbe offesa, mi avrebbe insultata, mi avrebbe lasciata.
E allora ho capito che non era passione, quel terrore, non poteva esserlo.
Quando sono tornata a casa, l’ho chiamato e gliel’ho detto.
Mi ha offesa, mi ha insultata, mi ha lasciata.
Ma ha chiesto di vedermi ancora una volta. Ancora una volta ho ceduto, ma sarebbe stata l’ultima: non volevo più sentire quella saliva fredda sulla pelle, volevo il mio respiro, la mia testa sgombra. Volevo riavere le mie amiche e i miei domani.
Non era mai stata passione, ne ero certa.
Come avevo fatto ad amare quella stanza di cemento che mi aveva costruito intorno, come avevo potuto permettergli di avvolgermi in lacci e poi in catene, in quale momento mi ero smarrita? Mentre mi truccavo, non riconoscevo nello specchio quegli occhi atterriti che nessun correttore riusciva a schiarire. Mi sono preparata per l’appuntamento con la mia libertà, le gambe che tremavano, le mani che tremavano, la voce che tremava.
Ma non ho detto nulla, quando sono arrivata: non c’è stato bisogno, non c’è stato tempo.
Le sue braccia si sono tese, e io sembravo aspettarle. Meritavo quello, meritavo tutto, perché non era passione e io me n’ero accorta troppo tardi. Era solo colpa mia.
Ora sono qui, ai piedi di questo muretto a secco. Sono qui con la faccia blu, il collo spezzato.
Il mio vestito è sporco, e un cane randagio mi ha annusata poco fa. Un uomo passeggiando mi ha trovata e ha urlato. Non sa che porto stretti sotto le unghie brandelli di pelle, tutto quello che lui mi ha regalato in cambio del mio ultimo respiro.
Aspetto qui, non posso far altro, so che arriverete al seguito dei lampeggianti.
Mentre mi copriranno il viso con un telo, qualcuno farà brillare un flash sui miei sandali macchiati di urina.
Per voi il mio nome sarà inchiostro da leggere e gettare su un tavolo.
Ma vi prego, vi prego. Non scrivete più passione.
Anche io sono incappata in un manipolatore…. di diverso calibro ma pur sempre manipolatore… altro che passione altro che amore altro che tutto !!!!