
Se gli si chiede se ha seguito le regole auree del poliziesco, risponde con un sorriso divertito che in letteratura non contano quelli che seguono le regole, ma quelli che le sorpassano. E da quello che racconta della sua vita e da ciò che scrive e da come lo scrive, si capisce che le regole di S.S. Van Dine non le ha mai neanche guardate.
L’incontro con Ian Manook attorno a un tavolo -nella elegante sede della sua casa editrice italiana, Fazi editore- per noi che, letti i polar che hanno come protagonista Yeruldelgger, avevamo mille curiosità è stato appagante; ma il piacevole pizzico in più, il quid che ha reso notevoli quel paio d’ore insieme, è stato incontrare un uomo interessante e interessato, affabile, attento e spontaneo (qualità invero rare negli scrittori, ma su questo sorvoliamo).
Nessuna domanda inevasa, nessuna curiosità in sospeso: rispondendo dalle questioni politche scottanti alle domande più personali, ha delineato una figura di sé e della propria scrittura quanto meno originale e, come dicevamo, fuori dalle regole.
Da subito Manook sottolinea che preferisce arrivare alla scrittura “vergine” da racconti e informazioni altrui: detesta quella che chiama la documentazione “rigurgitata” che fuoriesce quando uno scrittore, saturo di informazioni preventive, non riesce a tenerle fuori da ciò che scrive, aggiungendo dettagli che poco hanno a che vedere con la narrazione e la letteratura. La scrittura di Ian Manook viceversa esce di getto, senza un piano di lavoro e senza un traguardo prefissato, da una o due scene ben chiare fin dall’inizio nell’autore. E soprattutto scaturisce dai suoi ricordi interiorizzati di viaggiatore. L’ex-hippy figlio della diaspora armena ha fatto del viaggio uno dei fondamenti essenziali della vita: le sue narrazioni affondano le radici e germogliano dai ricordi dei luoghi che ha visitato spostandosi in modi anche poco canonici -dall’autostop al lavoro sulle navi- cercando la comprensione senza pregiudizio delle popolazioni incontrate. Per quanto possibile -sottolinea- in quanto tutti siamo razzisti, assorbiamo pregiudizi dall’ambiente in cui viviamo, in maniera inconsapevole e anche contro la nostra volontà. La Mongolia, attraversata per cinque settimane qualche anno fa, sfondo e prima attrice nei romanzi di Yeruldelgger, è una terra che affascina, contraddittoria, selvaggia e domata, intatta e corrotta: su questo accidentato percorso Ian Manook disegna la trilogia che si conclude con La morte nomade.
E contrastante è il suo modo di raccontarla, giocando con il lettore fra tradizione e progresso, fra bianco e nero, luce ed ombra: se il libro si apre sul disinvolto piacere degli amori nomadi, in seguito ne mostra il lato più triste e deleterio; se la yurta -la tenda in feltro delle popolazioni nomadi mongole- nei primi due libri è dettagliatamente descritta come luogo di tradizione e ordine, in questo viene inserita in un ambiente degradato, in una baraccopoli forzata alla periferia di Ulan Bator; se è vero che i cercatori d’oro ninja sono artefici dell’inquinamento e della distruzione del paesaggio del Gobi, sono anche vittime di un sistema economico che schiaccia impietosamente chi è in basso. La ferocia sfrenata e la sete di denaro e potere, coprotagonisti dell’ultimo romanzo, sono l’altra, più squallida faccia della feroce durezza della vita nomade, che non è una scelta romantica, ma semplice necessità di sopravvivenza in un ambiente ostile.
E Yeruldelgger è l’eroe antieroico che ben rappresenta la complessità della Mongolia: impastato di rabbia e aspirazione al misticismo, quest’uomo forte (ma mai davvero descritto nelle pagine della trilogia), questo ex poliziotto che agogna la pace ma sembra calamitare la violenza, diventa nel suo addio l’emblema finale di un Paese dal cuore lacerato.
Addio scritto solo sulle pagine, perché -come accade per le non-sepolture nomadi che cercano la dissoluzione del corpo nella natura affinché di chi scompare resti il puro ricordo- “le anime nomadi non muoiono mai, diventano leggende erranti”.
p.s. Ho tentato in tutti i modi di avere quella t-shirt…
E tu cosa ne pensi?