
La telefonata arriva che è già buio: omicidio. Via G. M., ovviamente dall’altra parte del mondo, in quel gruppo di palazzine aggrappate senza grazia alla collina come se volessero sfuggire dalla rete del raccordo e della ferrovia di Labaro. Cazzo, speravo di andarmene presto oggi, che Marco mi ha chiesto di andare al cinema insieme. E invece salto in macchina con Pandolfi e via sulla Flaminia. Anche Pandolfi non sprizza gioia, mi sa che stasera c’è un incontro di coppa: la Lazio, la Roma, chissà. Io penso a Marco che mi aspetta e Pandolfi alla partita sulla pay-tv, abbiamo due facce nere che dicono tutto.
Traffico congestionato come sempre, sirena a palla, controllo l’ora, magari ce la faccio. Ci spera pure Pandolfi, che accelera un altro po’. E inizia pure a piovere.
Sotto il condominio il solito formicaio di ambulanze, fotografi, colleghi in borghese che anche un ragazzino delle medie con due bustine di maria nascoste nel calzino riconoscerebbe lontano un miglio. E gente, mani in tasca e sguardo vigile, curiosi affacciati alle finestre a fingere di aggiustare i panni sui fili, a seguire la realtà come una telenovela, aspettando il colpo di scena. Quando la morte fa la sua apparizione il risultato è sempre lo stesso, uno spettacolo con repliche talmente viste da diventare consunte, meccaniche. Mi lancio nel portone di alluminio che resta spalancato come una bocca sbalordita da tutto quel movimento. Lungo le scale odore di cene interrotte, e, ferme su un pianerottolo, due donne, una abbraccia l’altra che mugola nella sua spalla “ma erano così innamorati, così innamorati…”, un vinile inceppato sullo stesso solco. Così innamorati. Prendo nota mentalmente di tornare a parlare con quelle due, ma dopo. Prima devo vedere.
La scientifica è già all’opera, manco fossero arrivati in elicottero, un collega mi passa i copriscarpe ed entro nell’appartamento: un lampadario anni settanta scarica una luce giallastra dal soffitto basso, centrini infilati sotto ogni soprammobile. L’immagine a grandezza quasi naturale di un gesù belloccio e capellone mi lancia uno sguardo severo dall’alto, rimproverandomi la confusione che regna tra quelle mura prima di oggi tranquille, ordinarie. Mi assale la sensazione di essere più ingombrante di quel che sono, più grossa, molesta e fracassona. A disagio per una colpa che non ho, mi avvicino a un tizio con un camice bianco che parla concitato al cellulare: senza interrompersi mi indica una porta; sul muro dietro di lui, per terra, sullo stipite, qualcuno ha lasciato le tracce irregolari che segnalano in rosso il congedo da una vita. Prendo un bel respiro, entro. Un ometto anziano è steso sul letto matrimoniale in canottiera e pantaloni del pigiama, sbiaditi ma freschi di bucato, i calzini di cotone, le braccia stese lungo i fianchi. I capelli bianchi sono pettinati, ed è sbarbato di fresco: il corpo ha un atteggiamento morbido, abbandonato, come se stesse lì lì per lasciarsi andare a una pennichella. Se non fosse per il manico del coltello da pane che gli spunta dalla gola la lama che lo spilla al materasso come un insetto da collezione. Se non fosse per il sangue che ha intriso il cuscino, disegnato coralli morenti su muri e pavimento, se non fosse per lo sguardo sbalordito incollato al soffitto a cercare la crepa da cui gli è sfuggito l’ultimo soffio di vita.
La lama è bella larga e ha fatto bene il suo lavoro, quasi sicuramente troncando trachea e carotide, ma l’omino deve aver sofferto parecchio prima di arrivare al riposo finale. Un colpo da maestro per averlo seccato così, comunque, con una botta sola. Prima di arrivare a fare mentalmente i complimenti a chi l’ha assestata, mi scuoto e vado a parlare con la pazza che ha ridotto così questo povero cristo. È in cucina, mi dice il collega, che mi infila in mano un blocchetto con alcuni appunti. Sospiro, penso a Marco che mi aspetta, chissà se ha fatto i compiti. Non andremo al cinema e si incazzerà di nuovo, già lo so. E non so dargli torto.
In cucina, una stanza fasciata di mattonelle bianche tirate a specchio, c’è solo una donna piccola e magra magra, con una crocchia di capelli bianchi, seduta davanti ad un bicchiere di tè intatto. Chissà quale anima pia ha pensato che ne avesse bisogno, forse una delle due vicine piangenti sulla scala. Potrei scambiarla per una delle mie parenti, ecco: potrebbe essere la zia Santina, se non fosse per lo sguardo perso nei disegni della tovaglia plastificata, se non fosse per le macchie rosso scuro che si seccano sulle mani, sulla vestaglia azzurrina. Macchie sguaiate, fissate in maniera irreversibile alla sua vita ordinata, ordinaria.
Non si muove e non parla, è sotto choc, mi pare ovvio. Si rende conto di quello che ha combinato, la cara zietta? Vediamo un po’.
Le parlo piano, con dolcezza, le faccio domande, cerco di scuoterla da quello stato catatonico alternando cautela e pressioni: leggo che si chiama Anna, che erano sposati da pochi mesi, un matrimonio tra anziani soli, un legame tranquillo bruscamente tranciato da un palmo di metallo nel posto sbagliato. La signora non risponde, non mi guarda, nessuna reazione. Fissa i ghirigori beige della tovaglia e tace. Decido di aspettare, sto zitta anch’io. Non riesco a immaginare cosa le passi nella testa in questo momento di silenzio totale, io penso a mio figlio che mi aspetta per andare al cinema, mio figlio che avrei affidato senza remore ad una nonna come lei, se non fosse che la fragile vecchietta ha appena sgozzato come un coniglio il marito, se non fosse che non abbiamo nonne affettuose nei paraggi, se non fosse che Marco e io siamo soli in questa città. Soli e lontani. Non so perché mi pesa così tanto oggi, ma sento gli occhi che pizzicano. Sono stanca e voglio andare a casa. Un collega si affaccia, getta uno sguardo sulla scena e sta per dire qualcosa, ma lo guardo male e richiude la porta.
I minuti passano senza una sillaba, sono pronta a rinunciare e mi alzo dalla sedia, quando mi vengono in mente le due donne sulle scale. Erano così innamorati.
– Ma non vi volevate bene, Anna?
Lei solleva lo sguardo, finalmente, due occhi di un azzurro acquoso, bordati di rosa acceso, mi fissano. Sulle labbra sottili galleggia lieve un sorriso quasi intenerito.
– Oh sì. Sì, cara. Tanto. Non ci siamo sposati per solitudine, sa: eravamo innamorati. Quando lo incontravo ai giardini, mi batteva il cuore. – Forse sto sognando, ma sul viso della vecchia assassina si è diffuso un calore, un rossore, che mi fanno rispondere alla sua confessione con un sorriso.
-Ero felice. Ma lui voleva di più, e allora ci siamo sposati. Stavamo insieme tutto il giorno, sempre. Ma poi la sera, ogni sera, mi aspettava per… – ha un’esitazione, stringe le labbra in una linea violetta, non capisco se la blocca il pudore o il ribrezzo. Ma il resto delle frasi si srotola in fretta, come se avesse trovato il coraggio di sputare qualcosa che preme, le riempie la bocca, vuole uscire -Pretendeva. Io non sapevo che fosse così, il matrimonio. Pensavo alla vecchiaia insieme, che ci saremmo fatti compagnia, capisce? Mano nella mano. Invece, ogni sera mi aspettava. Capisci, cara?
Annuisco; non ho capito un cazzo, no, ma voglio che continui a parlarmi per sapere se devo affidarla ai sanitari o ai colleghi. Annuisco ancora, e riprende a parlare, con pazienza:
– Osvaldo mi amava tanto. Ma quello che voleva era troppo, troppo, io non ce la facevo più. Non mi ero mai sposata, prima di lui, ma è un inferno. Un inferno. Ogni sera lì, ad aspettarmi. Ogni sera… come fate a sopportarlo, voi giovani? Ogni sera…
Ho paura di capire, ora, ma continuo a star zitta per vedere dove va a parare. A questo punto la nonna scuote la testa, si alza. Io scatto in avanti a fermarla, ma lei riesce comunque ad aprire la vestaglia: sotto è nuda, ha un corpo pallido e secco, rosicchiato, i seni cascanti sulle costole come sacchetti vuoti, un ventre afflosciato su un sesso senza peli chiuso tra due cosce ossute. Davanti a quello sfacelo mi blocco, gli occhi sbarrati, forse per lo stupore, per la vergogna, forse per l’orrore di una vecchiaia incombente che aspetta anche me dietro l’angolo. In quella larva disseccata si specchiano le mie nuove rughe, il tempo che scivola bastardo senza tornare indietro, vorrei correre via, cancellare quella donna, la sua e la mia storia. Lei mi fa un sorriso piccolo:
– È disgustoso, vero? Odio questa pelle flaccida, da mummia: sono ancora viva, ma sembro già una morta.
Si ferma un attimo, sconcertata dalle sue stesse parole, come se ricordasse solo in quel momento che un morto c’è in effetti, e non è lei. Ma continua perché ormai non può più farne a meno:
– Lui invece… A Osvaldo non importava che fossi vecchia, orrenda. Ogni sera mi aspettava di là, mi montava addosso, toccando, sbavando. Sporcando tutto. Io ci ho provato, cara, credimi. Ma non ne potevo più. Tutto qui. Se non fosse che…
Si richiude per bene la vestaglia, stringendo con forza la cintura. Mentre parla, si guarda sconsolata le mani, le strofina sulle macchie scure:
– …se non fosse che non mi ascoltava quando dicevo no, sarebbe andato tutto benissimo. Saremmo stati felici.
Davvero bello!
Grazie!