
Potrei dire molte cose sul libro di Enrico Macioci, Lettera d’amore allo yeti.
Potrei iniziare col dire che è il libro di un amico, e leggere il libro di un amico mi crea sempre una lieve tensione, perché non so come andrà a finire. Se non mi piacesse, dovrei trovare delle frasi che con delicatezza mi consentano di esprimere la mia insoddisfazione. Se mi piacesse e lo comunicassi, l’amico potrebbe credere che io parli solo appunto per amicizia. Insomma, un imbarazzante pasticcio. Non è questo il caso: sin da quando ho iniziato la lettura la tensione si è gradevolmente sciolta lasciando spazio a quella sensazione allo stomaco che mi suscitano pochi autori, e che sono solita paragonare alla fame. Fame di andare avanti, di affondare i denti ed estrarre il succo della storia.
Ma lasciando da parte queste cannibalistiche sensazioni, potrei continuare col dire che è una storia che galleggia tra i generi, e quindi indefinibile: un horror? Forse, ma non solo. Una riflessione sulla morte? Certo, ma anche sulla vita. Uno specchio dell’evoluzione intima del rapporto padre-figlio? Sicuro, ma sarebbe riduttivo.
Potrei infine limitarmi a raccontare la trama, come è d’uso tra molti: ma per i miei gusti quanto è riportato nel risvolto del volume è persino troppo (piccola bacchettata sulle dita a Mondadori).
Vi dirò invece che la storia prende inizio da una fine: la morte improvvisa della moglie costringe Riccardo ad affrontare un vuoto inaspettato, imprevisto e crudele. Beffardo, persino. Riccardo e suo figlio Nicola sono stati depredati nel sonno dalle loro certezze e tentano, nudi, arrancanti, di ritornare alla vita. Soffrendo, tentano di smettere di soffrire. Ma il traguardo è lontano, incerto e il cammino cosparso di angoscia e sofferenza.
Vi dirò ancora che in questo tortuoso procedere incontriamo la parte più delicata e intima del romanzo: oltre al suo, Riccardo deve farsi carico del dolore del figlio, che appare come un ometto fragile e assennato, capace di gestire la sofferenza; Nicola resta però un bambino di neanche sei anni che, cercando una soluzione (a lui) comprensibile all’ingiustizia della morte, scrive al mitico yeti chiedendo di riportargli sua madre. Le indecisioni, le incertezze, le debolezze che ogni genitore conosce – farò bene, farò male, dove ci condurrà questa mia scelta – vengono sfogliate, spogliate, declinate con disarmante sincerità, costringendo il lettore a pause di riflessione.
Perché un padre non possiede da qualche parte un libretto di istruzioni? Una mappa per non sbagliare ai bivi più importanti?
O anche:
Genitori e figli diventano soggetti ben distinti solo quando il danno dell’amore è compiuto, e l’amore è più subdolo dell’odio: amiamo i nostri figli, perciò li danneggiamo.
E vi dirò che la voce originale ed elegante che narra la storia di Riccardo e Nicola ha anche un procedere che, nonostante le origini italiche dell’autore, porta in sé evidenti inflessioni del Maine: sulla spiaggia calda e mediterranea di Colombaia, nonostante il sole brilli alto, si muovono ombre degne di Castle Rock e di Derry.
E che il lento incombere tenebroso di qualcosa che sta per accadere, di una minaccia imminente, non fa che aumentare la sensazione di dolore e precarietà della vita che permea Lettera d’amore allo yeti, in una sorta di pessimismo ungarettiano:
Siamo tutti randagi, e piove quasi sempre.
Ma vi dirò ancora, in confidenza, che uno spiraglio di luce c’è. Alla fine, c’è. Nonostante.
“… Tutti moriremo, eppure tutti viviamo. Questo è il miracolo. Vivere nonostante la morte, vivere convivendoci. Ti sembra poco? A me pare un miracolo. E un miracolo mi sembra abbastanza.”
Parola di yeti.
Francesca Schipa
E tu cosa ne pensi?