Il ritorno del Duca Bianco – un racconto di Neil Gaiman per David Bowie (parte II)

(qui la prima parte del racconto)

“Salvare la Regina?” risero. “La tua testa sarà su un vassoio prima che lei possa vederti. Molti sono venuti a salvarla, negli anni. Le loro teste giacciono su vassoi dorati nel suo palazzo. Tu sarai solo la più recente.” C’erano uomini che sembravano angeli caduti e donne che sembravano demoni risorti. Esseri così belli da realizzare qualunque desiderio il Duca avesse mai avuto, se fossero stati umani. E si pressavano su di lui, pelle su corazza, carne contro armatura, così che loro potevano sentire la freddezza di lui e lui poteva avvertire il loro calore.

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“Resta con noi. Lasciati amare,” sussurravano avvicinandosi con artigli e denti aguzzi.

Resta con noi. Lasciati amare,” sussurravano avvicinandosi con artigli e denti aguzzi. “Non credo che il vostro amore sarebbe un bene per me,” disse il Duca. Una delle donne, chiara di capelli, con occhi di un particolare azzurro traslucido, gli ricordava qualcuno a lungo dimenticato, un’amante uscita dalla sua vita molto tempo prima. Ricordò il suo nome e l’avrebbe chiamata a voce alta, per vedere se si sarebbe girata, per vedere se lo avrebbe riconosciuto, ma il destriero la sferzò con uncini aguzzi e gli occhi azzurro pallido si chiusero per sempre.

Il destriero si muoveva rapido, come una pantera, e tutti i guardiani caddero al suolo spasimando e poi giacquero immobili. Il Duca era davanti al palazzo della Regina. Scivolò dal destriero fino alla terra fresca.

 “Ora continuerò da solo,” disse. “Aspettami e un giorno farò ritorno.”

“Non credo che ritornerai,” disse il destriero. “Aspetterei fino alla fine del tempo, se necessario. Ma temo per te.”

Il Duca posò le labbra sul nero acciaio della testa del destriero, e gli augurò buon ritorno. Camminando per salvare la Regina, ricordò il mostro che regnava sui mondi e che non sarebbe mai morto, e sorrise, perché non era più quell’uomo. Per la prima volta dalla sua prima giovinezza aveva qualcosa da perdere e questa scoperta lo fece sentire di nuovo giovane. Il cuore iniziò a battergli forte nel petto mentre procedeva nel castello vuoto, e rise forte.

Lei lo attendeva nel luogo dove i fiori muoiono. Era tutto quanto lui avesse mai immaginato. L’abito era semplice e bianco, gli zigomi alti e molto scuri; i capelli erano lunghi e del colore infinitamente profondo dell’ala del corvo.

“Sono qui per salvarti,” le disse.

Sei qui per salvare te stesso”, lo corresse. La sua voce era quasi un sussurro, come la brezza che scuote i boccioli secchi.

Piegò la testa, nonostante lei fosse alta quanto lui.

Tre domande,” sussurrò lei. “Rispondi correttamente e ogni cosa desideri sarà tua. Sbaglia, e la tua testa riposerà per sempre su un piatto d’oro”. La pelle aveva il bruno dei petali delle rose morte; gli occhi l’oro scuro dell’ambra.

“Poni le tre domande,” disse lui con una fiducia che non provava. La Regina allungò un dito e ne fece correre la punta lungo la sua guancia con gentilezza. Il Duca non ricordava l’ultima volta che qualcuno l’aveva toccato senza il suo permesso.

Cos’è più grande dell’Universo?” chiese.

“Il Sottospazio e il Sottotempo,” disse il Duca. “Perché essi includono l’universo, e anche ciò che universo non è. Ma sospetto che tu voglia una risposta più poetica, meno precisa. Quindi dico la mente, perché può contenere l’Universo, ma anche immaginare cose che non sono mai state e non sono.”

La Regina non disse nulla. “È giusto? È sbagliato?” chiese il Duca. Per un attimo desiderò il sussurro serpentino del suo gran consigliere che gli immetteva, attraverso la connessione neurale, la saggezza accumulata dai suoi consiglieri attraverso gli anni, o anche lo stridio dello scarafaggio informatore.

“La seconda domanda,” disse la Regina. “Chi è più grande di un Re?”

“Naturalmente un Duca,” disse il Duca. “Perché tutti i Re, Papi, Cancellieri, Imperatrici e così via obbediscono solo e soltanto al mio volere. Ma ancora una volta, sospetto che tu voglia una risposta meno precisa e più fantasiosa. La mente, ancora una volta, è più grande di un Re. O di un Duca. Perché, benché io non sia inferiore a nessuno, alcuni possono immaginare un mondo in cui esista qualcosa di superiore a me; e qualcos’altro di ancora più superiore; e così via. No! Aspetta! So la risposta. E viene dal Grande Albero: Kether, la Corona, il concetto di monarchia, è più grande di qualsiasi Re.”

La Regina guardò il Duca con occhi di ambra e disse “Ecco la domanda finale. Cosa non puoi ritirare?”

“La mia parola,” disse il Duca. “Tuttavia, ripensandoci, una volta data la parola, talvolta le circostanze e talvolta i mondi stessi cambiano in modo sfortunato o inatteso. Di tanto in tanto, se si arriva a questo, la mia parola deve esser modificata per accordarsi alla realtà delle cose. Direi la Morte, ma, in verità, se mi trovassi ad aver bisogno di qualcuno che ho eliminato, lo farei semplicemente reincarnare…”

La Regina sembrava imapziente.

“Un bacio,”disse il Duca.

La Regina annuì.

“Hai una speranza,” disse la Regina. “Tu credi di essere la mia sola speranza, ma in realtà io sono la tua. Le tue risposte erano quasi tutte sbagliate, ma l’ultima non lo era del tutto.”

Il Duca rifletteva sul fatto di perdere la testa per questa donna, ma trovò la prospettiva meno inquietante di quanto si sarebbe aspettato.

Il vento soffiò nel giardino di fiori morti e ciò riportò alla mente del Duca fantasmi profumati.

“Vuoi conoscere la risposta?”

Le risposte,” disse il Duca. “Certo.”

“C’è solo una risposta, ed è il cuore.” disse la Regina. “Il cuore è più grande dell’universo, perché può provare pietà per qualunque cosa nell’universo, ma l’universo stesso non prova pietà. Il cuore è più grande di un Re, perché esso conosce un Re per quello che è davvero, eppure lo ama. E una volta che hai dato il tuo cuore, non puoi riprenderlo.”

“Ma io ho detto un bacio,” disse il Duca.

“Non era del tutto sbagliato,” rispose lei. Il vento soffiava più forte e violento e per il tempo di un battito l’aria si riempì di petali morti. Poi il vento sparì come era apparso, e i petali rotti caddero al suolo.

“Quindi. Ho sbagliato nel primo compito che mi hai assegnato. Eppure non credo che la mia testa stia bene su un piatto d’oro,” disse il Duca. “O su nessun tipo di piatto. Assegnami un compito, una missione, qualcosa che possa portare a termine per dimostrare che valgo qualcosa. Fatti portare in salvo da questo posto.”

“Non ho affatto bisogno di essere salvata,” disse la Regina. “I tuoi consiglieri e scarabei e programmi te l’hanno fatta. Ti hanno mandato qui come hanno fatto con altri prima di te, molto tempo fa, perché è molto meglio che tu svanisca per tua volontà piuttosto che doverti uccidere nel sonno. Ed è anche meno pericoloso.” Prese la mano di lui nelle sue. “Vieni,” disse. Uscirono dal giardino dei fiori morti, oltre le fontane di luce, che sprizzavano luci nel vuoto, e la cittadella del canto, dove voci perfette aspettavano di cantare a turno, tra sospiri e canti e mormorii e echi, benché non ci fosse nessuno a cantare. Al di là della cittadella c’era solo nebbia.

“Qui,” disse lei, “siamo alla fine di tutto, dove nulla esiste se non ciò che creiamo per atto di volontà o di disperazione. Qui, in questo posto, posso parlare liberamente. Siamo solo noi, ora.” Lo guardò negli occhi. “Non devi morire. Puoi restare con me. Sarai felice perché avrai trovato la felicità, un cuore, e il valore della vita. E io ti amerò.”

Il duca la guardò in un lampo di rabbia e perplessità. “Ho chiesto di tenere a qualcosa. Ho chiesto qualcuno a cui tenere. Ho chiesto un cuore.”

“E ti hanno dato tutto ciò che hai chiesto. Ma non puoi essere il monarca e avere queste cose. Quindi non puoi tornare.”

“Io… gli ho chiesto io che ciò accadesse,” disse il Duca. Non sembrava più arrabbiato. Le nebbie al confine di quel luogo erano pallide e ferivano lo sguardo del Duca se le fissava troppo a lungo o troppo in profondità. Il terreno iniziò a tremare, come sotto i passi di un gigante.

“C’è qualcosa di vero, qui?” chiese il Duca. “Di stabile?”

“Tutto è vero,” disse la Regina. “Il gigante sta arrivando. E ti ucciderà se non lo sconfiggi.”

“Quante volte ci sei passata?” chiese il Duca. “Quante teste sono state decapitate su piatti d’oro?”

“Nessuna testa lo è mai stata,” disse lei. “Non sono programmata per ucciderli. Essi hanno combattuto per me e vinto per me e sono rimasti con me fino a quando hanno chiuso gli occhi per l’ultima volta. Sono stati contenti di restare, o io li ho resi contenti. Ma tu…tu vuoi il tuo malcontento, vero?”

Egli esitò. Quindi annuì.

Gli mise le braccia attorno e lo baciò, piano e con delicatezza. Il bacio, una volta dato, non poteva esser ripreso.

“Quindi ora combatterò il gigante e ti salverò?”

“È ciò che accade.”

La guardò. E guardò se stesso, l’armatura intarsiata, le sue armi. “Non sono un codardo. Non ho mai abbandonato una battaglia. Non posso tornare, ma non sarei contento se restassi qui con te. Quindi aspetterò qui e lascerò che il gigante mi uccida.”

Lei parve allarmata. “Resta con me. Resta.”

Il Duca dietro di sé, nel vuoto candore. “Cosa c’è là fuori?” chiese. “Cosa c’è oltre la nebbia?”

“Vuoi fuggire?” chiese lei. “Vuoi lasciarmi?”

“Andrò,” disse. “E non andrò via, ma andrò verso. Volevo un cuore. Cosa c’è dall’altra parte di questa nebbia?”

Lei scosse la testa. “Oltre la nebbia c’è Malkuth: il Regno. Ma non esiste se non lo fai esistere. Esiste nel momento in cui lo crei. Se osi andare nella nebbia, costruirai un mondo o semtterai di esistere del tutto. E puoi farlo. Non so cosa accadrà, a parte questo: se andrai via da me, non potrai mai tornare.”

Sentì nuovamente un battito, ma non era più certo che fosse il piede di un gigante. Sembrava più il tic, tic, toc del suo cuore.

Si girò verso la nebbia, prima di poter cambiare parere, e camminò nel nulla, freddo e viscido contro la pelle. Ad ogni passo sentiva se stesso venir meno: la connessione neurale si spense, e il Duca non ricevette più nuove informazioni, tanto da dimenticare persino il suo nome e il suo rango. Non era certo se stesse cercando un luogo o lo stesse creando. Ma ricordava una pelle scura e gli occhi di ambra. Ricordava le stelle -ci sarebbero state stelle dove stava andando, decise. Dovevano esserci stelle.

Affrettò il passo. Sospettava di aver indossato un’armatura, un tempo, ma ora sentiva la nebbia umida sul viso, e sul collo e rabbrividiva nel mantello sottile all’aria fredda della notte.

Inciampò, il piede aveva urtato sul bordo. Si tirò su e scrutò le luci stradali sfocate dalla nebbia. Una macchina passò vicino -troppo vicino- e svanì dietro di lui, le luci posteriori rosse che macchiavano di cremisi la nebbia.

Il mio caro vecchio posto, pensò, e seguì un momento di pura perplessità all’idea di Beckenham come un suo vecchio caro nulla. Era un luogo da usare come base. Un luogo da cui fuggire. Certamente, ma era questo il punto? E poi l’idea di un uomo che fuggiva (un signore o un Duca, forse, pensò, e gli piacque come suonava l’idea) rimbalzava e dondolava nella mente, come l’inizio di una canzone.

Dovrei scrivere una canzone su “questo” invece di governare il mondo,” disse a voce alta, assaporando le parole nella bocca. Posò la custodia della chitarra contro un muro, mise la mano nella tasca del suo montgomery, trovò il mozzicone di una matita e un taccuino da uno scellino, e le scrisse. Avrebbe trovato abbastanza presto una parola da due sillabe migliore di “questo”, o almeno così sperava.

Quindi si diresse verso il pub. La calda atmosfera satura di birra lo avvolse appena entrò. Il mormorio e la confusione ovattata di una conversazione da pub. Alcuni lo chiamarono e lui mosse una mano pallida verso di loro, indicò l’orologio e poi le scale. Il fumo delle sigarette donava un lieve splendore azzurro all’aria. Tossì una volta, una tosse profonda dal petto, e desiderò una delle sue sigarette. Poi fu sulle scale con la logora moquette rossa, tenendo la custodia della chitarra come un’arma, e qualunque cosa gli fosse passata per la mente prima di girare l’angolo su High Street era svanita un passo dopo l’altro. Si fermò nel corridoio scuro prima di aprire la porta sulla stanza del piano di sopra. Dal brusio di frasi brevi e dal tintinnio dei bicchieri seppe che c’erano già un po’ di gente che aspettava e lavoravano. Qualcuno stava accordando una chitarra. Mostro? pensò il giovane. Ha due sillabe.

Rigirò la parola in mente diverse volte prima di decidere che poteva trovare qualcosa di meglio, qualcosa di più grande, qualcosa di più adatto per il mondo che intendeva conquistare. Con un rapido rimpianto, lasciò perdere, ed entrò.

Scary Monsters - David Bowie

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Categorie: d'Inediti

Autore:diLetti e Riletti

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2 commenti su “Il ritorno del Duca Bianco – un racconto di Neil Gaiman per David Bowie (parte II)”

  1. 15 gennaio 2016 a 11:28 #

    Bello bello ❤

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