
Soffro di insonnia, da sempre. Morfeo mi odia e io lo ricambio con lo stesso sentimento, non mi prende tra le sue braccia ma al più mi prende per i fondelli dandomi di tanto in tanto la sensazione che sì, ecco, ce la posso fare, ora mi addormento e.. niente, ancora un’ora o due poi si vedrà. E quindi leggo, dopo aver guardato qualche centinaio di serie tv nella speranza che mi fiacchino corpo e spirito, leggo perché facendo qualcosa che amo più di tutto lo frego Morfeo. In un sola notte quindi ho consumato il mio incontro con Quando parlavamo con i morti di Mariana Enriquez. Non sono solo una insonne però, sono una cuor di burro, ho paura di tutto dai serpenti ai vampiri, non faccio torto né al reale né all’immaginario e così, al buio e alla luce del cellulare -ché mi si è rotta la lampada un milione di anni fa e né la ricompro né rinuncio a leggere e quindi mi preparo a una vecchiaia da cieca vista la luce demenziale- mi sono immersa in una lettura che, ve lo dico subito, mi ha fatto rizzare ogni singolo pelo del corpo e dichiarare la sconfitta al mio acerrimo nemico Morfeo.
Questo volumetto consta di tre racconti, uno più inquietante dell’altro. Ma l’inquietudine è qualità non solo del piano orrorifico ma anche di quello più spiccatamente politico-sociale. Queste tre piccole narrazioni compiono una vera e propria capriola letteraria, l’autrice infatti racconta di morti, di fantasmi, di demoni, di follia collettiva e contemporaneamente di società civile e di crimini niente affatto esoterici. Racconta di Argentina e delle sue storie sepolte e del mondo dei morti.
Il primo racconto Quando parlavamo con i morti, da cui trae il titolo la raccolta, è la storia di un gruppo di ragazze e della loro passione per le chiacchierate con i defunti. Con una travoletta ouija, le adolescenti contattano gli spiriti cui chiedono genericamente di indovinare particolari delle loro vite fino a quando una di loro però non sarà spinta dalla curiosità di ritrovare i suoi genitori: due desaparecidos. È in questo modo che Mariana Enriquez compie un’operazione di congiungimento tra soprannaturale e realtà, dando alcune pennellate dell’uno e dell’altra giungendo ad un finale tipicamente horror seppure piuttosto sorprendente, preso come è il lettore dal piano della storia riguardante gli scomparsi e quindi dimentico dell’altro.
Il secondo è tra i tre quello che più sfrutta l’esistente per creare angoscia, senza scomodare il paranormale, eppure l’effetto “mi tiro la coperta di più sul naso” non è scalfito. Le donne di tutto il paese si ribellano ad una delle forme più aberranti di sprezzante machismo che affligge non solo l’Argentina: se non sei mia non sarai di nessuno perché nessuno ti vorrà. Donne cui i propri mariti o compagni danno fuoco. Le stesse allora cominciano a darsi fuoco da sole, si appropriano di una delle supreme forme di vilipendio che gli uomini piccoli hanno escogitato per offenderle. Decidono di creare un nuovo modello di “bellezza femminile” come prese da un’isteria collettiva, gettandosi vive nel fuoco consapevoli dell’orrendo destino che le attende aldilà delle fiamme.
L’ultimo dei tre racconti è il più lungo e il più strutturato, narra di tratta di esseri umani, di droga, di violenza, di povertà e di bambini. Perché sono i bambini a essere vittima di questi soprusi, le bambine in particolare, e svaniscono nel nulla, scompaiono per non riapparire quasi mai. Mechi, impiegata comunale, tiene un inutile archivio con i nomi e i dettagli su questi giovani ectoplasmi e conosce Pedro, un giornalista che, proprio in seguito alla sua conoscenza con Mechi, si dedica alle inchieste sulle sparizioni, Tutto questo fino a che i bambini non ritornano, e lo fanno d’improvviso, tutti insieme, tutti negli stessi posti, e soprattutto come se il tempo non fosse mai trascorso siano essi spariti da poche settomane o anni. L’atmosfera che cala sul paese è degna del più spaventoso racconto del più spaventoso scrittore di tutti i tempi (per me Poe, voi non so). La penna di Mariana Enriquez tuttavia segue una via del tutto diversa dagli scrittori di cui si dichiara estimatrice – Lovecraft, Mary Shelley e Edgar Allan Poe– è netta, poco incline agli arzigogoli e alla poesia, tagliente si potrebbe definire. Quasi chirurgica. La differenza tra registro scelto e storia narrata, quasi uno scontro, rende questo piccolo testo ancora più interessante, e da un lato stilistico e da uno invece narrativo.
Alcuni mi dicono che quando finiscono un libro che gli è piaciuto molto faticano a cominciarne uno nuovo, io come al solito funziono al contrario e se ho amato assai delle pagine sento il bisogno di estendere la mia dose di felicità impugnando subito un nuovo testo. Ho amato il libro che avevo in lettura prima di questo, il suddetto mi ha quindi colpita in rapida successione con una forza tutta diversa, lasciandomi alla luce di quel cellulare spiazzata, scossa e turbata. Quindi, come dicevo, ora ne voglio immediatamente leggere un altro ma, per carità, io devo dormire! Non meravigliatevi quindi se la prossima recensione sarà su di un librop che svela i segreti per riuscire a creare un orto sul proprio balcone.

Quando parlavamo con i morti Mariana Enriquez Caravan edizioni 2014 trad Simona Cossentino, Serena Magi e Vincenzo Barca 9,50 € 112 pp
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