
Ho iniziato a leggere il romanzo di Taiye Selasi con tutti i preconcetti del mondo. Non ho apprezzato il fatto che a giudicare –ammesso che di reale giudizio letterario Masterpiece si tratti- degli scrittori di lingua italiana avessero piazzato una donna di grande fascino, ma praticamente sconosciuta e che parla l’italiano non malissimo, lo ammetto, ma in quel modo che non consente ancora di cogliere le sfumature e le costruzioni profonde di una lingua. Un po’ come se mettessero Mika –così simpatico con i suoi “ciusato”- nella giuria del festival della canzone italiana, con la differenza tuttavia che, se non il testo, la musica è un linguaggio universale, che non necessita di traduttori. Una scrittrice osannata come rivelazione letteraria, nonostante abbia scritto soltanto un racconto, La vita sessuale delle ragazze africane e, appunto, La bellezza delle cose fragili e per di più bellissima: conoscendo il nostro Paese, non bisognava essere san Tommaso per farsi venire più di un dubbio.
Ma essendo scettica persino sul mio scetticismo, ho dovuto leggerlo, questo benedetto libro, pronta a parlarne male e subito.
Invece l’ho finito da quasi quindici giorni e sono ancora qui a rimuginarci sopra. È un libro che mi dispiace di aver letto in fretta, e che conto di rileggere centellinandolo. E anche se non ho avuto quella famosa voglia di telefonare all’autrice per parlarne con lei (troppo glam e soooo nice!), avrei voluto fiondarmi al telefono e dirlo a tutti i miei amici. Invece no, me ne sono stata buona e zitta a pensare, a chiedermi, con una certa invidia, da dove venisse fuori quella mescolanza musicale di vissuto e narrazione, di flusso interiore e dialoghi .
Non racconterò molto della trama, se non che tutto nasce da un’ingiustizia professionale radicata nel razzismo, per quel che riguarda le vicende private della famiglia Sai, e da una condizione diffusa che è quella degli afropolitan, termine coniato per indicare quegli emigrati che, lanciati in altri paesi, avendo studiato negli Stati Uniti o in Europa, si ritrovano a non avere una sola, fissa identità, ma una flessibile e sfaccettata. Una ricchezza acquisita, insomma, che fa sì che i figli di Kwaku Sai, già stimato chirurgo nel Massachusetts poi ritornato in Ghana, siano, ognuno a suo modo, speciali. Il tratto che li accomuna è il vuoto di un affetto, poiché il padre, subita l’immeritata onta professionale, abbandona moglie e figli e scompare. L’abbandono, duplicato e complicato dalle successive scelte della madre, lacera la famiglia con l’impeto di una granata.
[…]tutte le domande e le ferite, senza risposte, senza cure, lasciate lì ad asciugare nel silenzio, al sole.
Questi frammenti impazziti si riuniscono in Africa alla morte del padre, anni dopo, con il loro fardello di ricchezze e dolore. Ritrovarsi sotto lo stesso tetto è esperienza nuova e (ri)fondante: l’altrove è il loro stato, ma la famiglia riformatasi attorno alla madre Fola potrebbe essere anche la loro salvezza.
Chiude gli occhi, si stringe la vita con un braccio soffiando fuori il fumo, con il gusto della compagnia che si mescola con quello della nicotina, dolente per la felicità di averli tutti a casa.
La madre, personaggio splendido, perno di morbido acciaio, aspetta e teme da sempre il riunirsi dei frammenti sparsi, conoscendo il potenziale distruttivo della miscela. Dovrà fare i conti con il passato e ricomporre il presente attorno ai suoi come confine protettivo, superando le chiusure e i risentimenti.
Dopo colazione si stringono sul suv di Benson, ognuno chiuso nella silenziosa scatola di vetro dei propri pensieri, sette scatole, chiuse a chiave, insonorizzate e infrangibili.
La narrazione procede fluida, fitta, densa e scorrevole, con uno stile nitido, elegante, ma senza affettazione. I protagonisti assumono via via spessore, spogliandosi delle corazze per mostrare il proprio ventre tenero e ferito, e
…scivolano via ognuno verso la propria stanza, ognuno seguito da una debole scia di ferite e flebili speranze, che si insinuano sotto le porte che si chiudono.
p.s. Ghana must go è il titolo originale del romanzo, poeticamente tradotto nell’edizione Einaudi. Pare che si venda meglio senza la parola Ghana nel titolo.
Razzisti noi…?

La bellezza delle cose fragili, Taiye Selasi – Einaudi Editore, I Supercoralli – 328 pp, 19 euro – trad. a cura di F. Aceto
Post scritto benissimo. Non ho ancora comprato il libro della Selasi, anche se ho avuto solo commenti positivi a riguardo. Il tuo commento mi ha aiutato a superare i miei preconcetti, in parte, e quindi penso che presto lo acquisterò… Complimenti ancora per il blog e i suoi contenuti!
Ciao
Simone
Grazie, Simone…sei venuto a trovarmi anche su Twitter, vero? Mi fa davvero molto piacere.
Per quanto riguarda il libro, pare che la Selasi abbia affermato -mi hanno riferito- che molto è dovuto alla traduzione. Chissà, poi. Intanto fammi sapere quello che ne pensi, quando lo avrai letto. A presto!
Ciao! Si, sono passato da Twitter e ho cominciato a seguirti. Mi piace molto come scrivi. Certo che il fatto delle traduzioni rischia di ingannare il lettore.
Parlando con una persona che lavora alle traduzioni, mi è stato riferito che molte volte, per un fattore puramente culturale, molte parti dei libri vengono cambiate o ampliate per far fronte alle richieste linguistiche diverse. Il tutto dovrebbe sempre avvenire con la collaborazione dell’autore stesso, che servirebbe per fornire informazioni sullo scopo della scelta di alcune parole piuttosto che altre.
Certo che dev’essere un lavoro complicato, altro che Sudoku! 🙂 Sarebbe bello poter dare più spazio ai traduttori…non credi?
Forse è proprio dalla traduzione che deriva il successo del libro “tradotto” in un paese piuttosto che in un’altro…
Recentemente ho letto e recensito un libro bellissimo che si intitola “THE INVENTION OF WINGS” della bravissima Sue Monk Kidd. Ecco, sarei proprio curioso di leggere la versione in italiano, quando e se accadrà, essendo un tema a noi non molto conosciuto.
Per quanto riguarda la mia esperienza, non ho trovato grandi differenze nei libri che ho letto sia in inglese e poi in italiano.
Buona giornata!
Il lavoro di traduzione è in effetti un lavoro bellissimo e complicato, e spesso non abbastanza riconosciuto. È sempre bene citare il nome del traduttore, parlando di un libro: molto del valore di un’opera dipende dalla traduzione. Verrò a leggere la recensione del libro della Kidd, mi interessa! Buona giornata! 🙂